Editoriale – a cura di A. Amato – A cosa servono le società scientifiche

Pubblichiamo molto volentieri l’editoriale di Antonio Amato, nel quale ci si interroga sul ruolo delle Società Scientifiche e sulla funzione che rivestono nel momento storico che attraversiamo nel quale forse sarebbe necessario un più articolato e completo rapporto con le istituzioni.

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A cosa servono le società scientifiche?

di Antonio Amato

Sono trascorsi due secoli e mezzo dalla nascita della prima organizzazione professionale in ambito medico: era il 1766 e la New Jersey Medical Society vedeva la luce con lo scopo di “to form a program embracing all the matters of highest concern to the profession: regulation of practice; educational standards for apprentices; fee schedules; and a code of ethics.” In pieno secolo dei Lumi, anche di qua passava la laicizzazione della medicina, che progressivamente abbandonava gli spazi del privilegio familiare e gentilizio per intraprendere la strada del merito, in un percorso che non possiamo ancora dichiarare concluso. Il physicus doctus atque peritus, elitariamente arroccato dietro la claritas del sapere, il lucidus habitus scientifico e lo splendor dottrinale, protetto da un impenetrabile linguaggio accademico costellato di latinismi, iniziava la sua metamorfosi in professionista a tutto tondo, protagonista delle espressioni di livello superiore all’interno dei nuovi assetti della società borghese.

Ma in quel programma stringato ed essenziale erano presenti, in embrione, i due pilastri fondamentali che ancora oggi, declinati nel linguaggio della contemporaneità, dovrebbero sostenere la vision delle moderne società scientifiche: da una parte incrementare le qualità professionali dei propri associati attraverso la formazione in tutte le sue articolazioni, dalla promozione della ricerca alla formulazione di linee guida, dalla definizione del campo delle buone pratiche cliniche al training, dalle attività educazionali alla promozione dell’innovazione tecnica e tecnologica. Dall’altra difendere gli interessi professionali, creare network professionali interni ed esterni alla società, mettere in campo un’adeguata capacità comunicativa sia verso la comunità scientifica dei pari che verso la società in generale e le sue leaderships. Un connubio mirato ad aumentare la reputation del medico, che ha animato la storia delle società scientifiche di una tensione etica costante fra la tutela degli interessi legittimi degli associati e la salvaguardia dell’indipendenza della scienza medica e dei contenuti umanitari della professione.

In una survey condotta all’interno della German Society of Dermatology su ruolo e doveri delle società scientifiche, era emerso che le maggiori aspettative degli associati per il futuro riguardavano “training and additional qualification” (86.3%) e “health and professional policy” (81.6%) (Hensen P et al. 2009). Un perfetto equilibrio fra aspettative di espansione delle competenze e motivazioni di advocacy professionale. Due lati della medaglia con le effigia dell’opportunità (intesa come incremento delle chances) e della responsabilità.

In Italia si stima che circa 120.000 medici, un terzo della categoria, siano riuniti in 300 società scientifiche che producono centinaia di riviste mediche, corsi, congressi nazionali e internazionali, e, a loro volta, sono spesso associate a società internazionali di riferimento. Una giungla di sigle e nomi, dietro le quali è innegabile che a volte si nascondano pochi iscritti, nessuna attività scientifica e siti web cristallizzati. Ma che nella maggior parte dei casi rappresentano una comunità scientifica di riferimento, la parte attiva della professione che vuole far sentire la sua voce in tutte le problematiche inerenti la promozione della salute e della qualità delle cure in senso lato.

Una rappresentanza che, tuttavia, presenta elementi di crisi, sia contingenti che di sistema. La pletora di organizzazioni, l’eccessivo frazionamento in subspecializzazioni, la conflittualità fra correnti ospedaliere e universitarie, le difficoltà nel reperimento di fondi, una missiontroppo sbilanciata sull’organizzazione di eventi congressuali dei quali spesso si avverte più l’eccesso che la necessità, una formazione lacunosa per contenuti (ritagliati sui desiderata dell’industria più che sulle esigenze dei professionisti) e qualità (lontana dal gold standard del knows, knows how, shows how, does), sono tutte ipotesi con elementi di veridicità.

Ma è innegabile che esista, nel contempo, un contesto socio-politico e giuridico che ostacola le società nel virtuoso esercizio delle proprie funzioni, per la colpevole assenza di regole chiare e trasparenti. Nel 2004, l’allora ministro della Salute Girolamo Sirchia aveva emanato un decreto che stabiliva i requisiti richiesti alle società scientifiche e alle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie per poter fare formazione. Un decreto annullato poi dalla Corte Costituzionale sulla base di una impugnativa avviata dalla Provincia autonoma di Trento, che ha di fatto bloccato un primo tentativo di regolamentazione. Lo stesso PSN 2003-2005 già riconosceva alle Società scientifiche il ruolo di “garanti non solo della solidità delle basi scientifiche degli eventi formativi, ma anche della qualità pedagogica e della loro efficacia”. Una constatazione de facto priva di una legittimazione de iure, che tuttavia riafferma il principio che una politica attiva nell’ambito della Continuing Medical Education (mantenimento, sviluppo e incremento delle conoscenze, competenze e performances) e del Continuing Professional Development (aggiornamento, sviluppo e miglioramento dell’applicazione delle capacità professionali con riferimento a contesti multidisciplinari) è elemento costitutivo del ruolo delle associazioni mediche in una società complessa. Una competenza educazionale che dovrebbe abbracciare sia la definizione di contenuti e metodologie che il coordinamento del network degli stakeholders. Anche l’attuale Ministro ha più volte ribadito di voler percorrere fino in fondo la strada di una regolamentazione degli aspetti costitutivi ed organizzativi delle società scientifiche, la cui concretizzazione deve avviarsi con l’istituzione di un apposito albo delle società accreditate.

Una direzione auspicabile ma che ha già il sapore di una battaglia di retroguardia. Negli ultimi anni, la progressiva diffusione del governo clinico avrebbe dovuto imporre una collaborazione fattiva tra queste realtà professionali e gli organismi di politica sanitaria nazionali e regionali. La definizione dei requisiti di accreditamento delle strutture sanitarie (strutturali, tecnologici, organizzativi) e dei professionisti (conoscenze, competenze, attitudini), la produzione di linee guida condivise in accordo con standard metodologici internazionali e la loro diffusione (anche in relazione agli sviluppi della giurisprudenza in materia di responsabilità professionale), l’individuazione di indicatori di qualità (sicurezza, efficacia, efficienza, appropriatezza) da condividere con le istituzioni di politica sanitaria, la definizione dei livelli essenziali di assistenza, la conduzione di audit clinici nazionali, la diffusione della cultura della gestione del rischio, la costituzione di un osservatorio sulle tecnologie, lo sviluppo della ricerca indipendente: sono tutti capitoli strategici della vita del pianeta sanità che avrebbero già dovuto vedere le società scientifiche accreditate quali interlocutori naturali della parte pubblica, in quanto detentrici del know-how professionale e di una visione clinica di problemi complessi. Esiste una parte politica che decide quante risorse destinare alla tutela della salute, da dove recuperarle e dove spenderle e una parte gestionale che ha la responsabilità di ottimizzarne l’utilizzo. Entrambe ragionano in termini di sanità pubblica, mentre il medico risponde al singolo paziente. Una dicotomia resa più profonda dal mancato riconoscimento di ruolo alle associazioni professionali e che spesso è stata scaricata sulle spalle di medici e pazienti.

Accanto a queste considerazioni, mi sembra opportuno che l’analisi affronti anche il tema della capacità delle società scientifiche di proporsi come élite professionale, con tutte le implicazioni conseguenti. Pur senza entrare nell’ambito delle disquisizioni sociologiche e politologiche, discipline all’interno delle quali la teoria delle élite si è sviluppata, tuttavia sappiamo che, fatte salve tutte le forme dell’uguaglianza, ogni associazione democratica funzionante, se vuole influenzare positivamente le élite reciprocamente interdipendenti all’interno di una società pluralista, deve sapersi proporre come quello che Giovanni Sartore definiva “gruppo di riferimento di valore”. Nel nostro caso un riferimento, a mio modo di vedere, innanzitutto culturale ed etico, un patrimonio di capacità e di competenze, alimentato da una selezione sulla base dell’ingegno, dell’impegno e del merito. Una pretesa di “potere” che è legittimata del perseguimento di un interesse particolare che è portatore di una utilità diffusa, di finalità proprie che sono però condizione perché molti altri possano raggiungere le loro. Opportunità e responsabilità che tornano a combaciare sui due lati della moneta. Superfluo puntualizzare quanto conflitti di interesse, regole poco chiare sulle sponsorizzazioni, scarsa indipendenza della ricerca e della formazione, ecc. erodano ogni credibilità nel tentare di rappresentare in chiave universale le proposte e le richieste di una parte.

Certamente il panorama generale del Paese, a parte eccezioni individuali o di piccoli gruppi, mostra una desolante debolezza delle élites (politiche, religiose, imprenditoriali, intellettuali, professionali), incapaci di declinare al plurale i loro interessi particolari e di coniugare al futuro i verbi del loro agire sociale, proiettandolo su orizzonti più vasti. Nella patria del particolarismo, è più facile trasformarsi in gruppi di interesse, corporazioni chiuse o aggregazioni di privilegi, agli antipodi da ogni orgoglio del merito e della selezione e da ogni rigore disciplinato.

Questa società ha da sempre esplicitato nella sua vision e mission le finalità ideali e valoriali che ho fin qui tentato di tracciare e analizzare, alcune delle quali ne sono state la stessa ragione fondativa. La coerenza morale e deontologica del suo corpo sociale è fissata in alcune norme statutarie e regolamentari, pur riposando in larga parte su una sorta di honor system, analogo a quello che informa, ad esempio, la vita accademica dei colleges nordamericani. Va tuttavia riconosciuto che, anche per ragioni di pubblicità e trasparenza, la compiutezza formale di un codice etico,già sollecitata nel XVIII sec.,sembra ancor più necessaria oggi,quando l’evoluzione della scienza biomedica e dei paradigmi sociali impone costantemente alla riflessione bioetica questioni e scenari inediti.

Mi sembra appropriato, in conclusione, ricordare quanto annotava Robert B Remmet, primo presidente della Plymouth Medical Society fondata nel 1794 da 11 medical gentlemen.A proposito della consuetudine dei soci di riunirsi la sera dei venerdì vicini al plenilunio, chiosava essere uno stratagemma, affinché la luna fornisse abbastanza luce da consentir loro di recarsi ai convegni, che si tenevano a rotazione nelle trattorie locali o nelle abitazioni, al sicuro dai briganti. Uno squarcio pionieristico, che tuttavia richiama la necessità non tramontata per ogni organizzazione vincente di attingere ad un core di valori motivazionali, combinazione di spirito di appartenenza, entusiasmo, idealità ed elevato grado di coerenza e coesione interna.

21/09/2016
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